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Il patriarca Moraglia ha ordinato tre nuovi sacerdoti.

Il patriarca di Venezia monsignor Francesco Moraglia è tornato ieri alla Spezia per ordinare tre nuovi sacerdoti: don paolo Aluisini, don Andrea Cappelli e don Fabrizio Ferrari. La cerimonia è avvenuta nella cattedrale di Cristo Re. Dopo la celebrazione, il patriarca è subito ripartito per Venezia. Riportiamo di seguito il testo integrale dell'omelia pronunciate durante l'ordinazione:

Carissimi don Andrea, don Fabrizio, don Paolo, la Chiesa della Spezia è in festa per la vostra ordinazione; per voi e con voi, ringrazia il Signore.

Vi parlo con l'animo trepidante. Ormai siete pronti a partire, sapendo la missione che vi attende: sarete chiamati a essere segno e presenza di Gesù-eterno-sacerdote, in mezzo ai fratelli.

Un ringraziamento particolarissimo ai genitori che vi hanno donato la vita e guidato nei primi passi della fede e, anche, a coloro che vi guardano dal cielo e, dal cielo, sorridono.

Oggi, dinanzi a un'ordinazione sacerdotale, viene spontaneo domandarsi: ma che cosa - in un contesto di diffusa secolarizzazione - può spingere un giovane a farsi prete? Perché lasciare tutto, perché porre totalmente in gioco la propria esistenza, quando ancora ci sta dinanzi, integra?

Con un sì libero - attraverso le promesse sacerdotali - grazie alla realtà del sacramento dell'ordine, un giovane sceglie, per sempre, di appartenere al Signore, entrando in una somiglianza più grande con Lui. Somiglianza che - da allora, in poi, - anche sul piano dell'essere, lo conforma a Lui, in maniera differente da prima, così da poter agere in persona Christi capitis.

Si tratta di una somiglianza che nasce da un dono, del quale solo Lui, il Signore, può decidere; una somiglianza che si radica nell'essere stesso della persona e che abilita a compiere i gesti di Gesù-sacerdote e a pronunciare, con la Sua stessa autorità, le sue parole: "questo è il mio corpo", "questo è il mio sangue" e "io ti assolvo dai tuoi peccati".

Ho voluto iniziare l'omelia dell'ordinazione presbiterale dei nostri carissimi Andrea, Fabrizio e Paolo ponendo una tale domanda, perché la risposta contiene qualcosa di decisivo sia circa il sacramento dell'ordine, sia il ministero ordinato che, da tale sacramento, trae origine.

Dai Vangeli sappiamo che, a volte, lo stesso Gesù invita a seguirlo. E' così nell'incontro coi primi discepoli - Andrea e Giovanni, Simon Pietro e Filippo (cfr. Gv 1, 35-51) - e col giovane ricco, come narra il vangelo di Matteo (Mt 19, 16-26).

Altre volte, invece, come nel caso dell'indemoniato di Gerasa, Gesù oppone un fermo diniego: "Quello che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: "Va nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato..." (Mc 5,18-19).

Carissimi Andrea, Fabrizio, Paolo: all'inizio del vostro sacerdozio non vi è la vostra decisione o di qualcuno che, come voi, si muove unicamente sul piano umano. Ricordatelo per tutto il tempo che il Signore vi darà la grazia di vivere il dono del sacerdozio ordinato.

La decisione da cui tutto origina non è vostra ma è Sua; Gesù è al principio del ministero ordinato del quale, noi uomini, non possiamo disporre in alcun modo.

Gesù - e solo Lui - si trova all'origine del ministero ordinato e del singolo ministro. Marco afferma all'inizio del suo Vangelo: "... [Gesù] salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da Lui. Ne costituì Dodici perché tessero con Lui e anche per mandarli a predicare,.." (Mc 3,13-19).

Le parole di Gesù sono essenziali: chiamò a se quelli che volle. Sì, il Vangelo non gira attorno alle questioni: Gesù scelse quelli che volle (cfr. Mc 3,13) e Luca specifica che questa decisione fu presa dopo una notte trascorsa in orazione (cfr. Lc. 6,12).

Carissimi ordinandi, "adeguare", per quanto è possibile, la realtà del sacerdozio, di cui voi oggi ricevete il dono, è l'impegno di un'intera vita, il lavoro di ogni giorno e di tutti i giorni.

Il prete, infatti, deve esser consapevole del dono che porta in sé; deve sapere chi è, cosa è chiamato a fare, cosa i fratelli si possono attendere da lui. Si tratta, quindi, di conoscere e stimare sempre più il dono di cui è, personalmente, termine.

Questo, carissimi, non vuol dire che - soprattutto dopo gli anni del seminario - non abbiate un'idea sufficientemente chiara del sacerdozio ordinato, che oggi vi è conferito.

Ma un conto è conoscere qualcosa, un altro è testimoniarla; non basta conoscere, è necessario che il sapere diventi anche modo di pensare, di parlare, di agire. In questo senso si parla di orto-prassi.

Non sono scontati neppure da parte del presbitero la stima e l'apprezzamento del dono che ha ricevuto e dal quale ha origine la sua specifica identità.

Prima conseguenza, sulla gratuità del dono che qualifica il prete, è lo stile che deve contrassegnarlo. Quando Gesù manda i Dodici in missione, dopo averli istruiti, dice: "Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date".

Ora quanti devono rispondere a tale gratuità, proprio perché sono stati pensati e voluti da Dio in tal modo, se vengono meno nelle loro prerogative, finiscono per rinnegarsi e "debordare" rispetto a quanti non sono costituiti in tale gratuità. La corruzione di chi è o dovrebbe essere ottimo, rende pessimi!

Carissimi, ogni gesto di gratuità crea ulteriore gratuità, ogni gesto di mancata gratuità ci rinchiude, ulteriormente, in noi stessi, una sorta di avvitamento dell'io e della volontà; così tutto, le cose piccole e grandi della vita, finiscono per dipendere dal gusto personale.

Certo, la realtà può essere affrontata partendo da percezioni ed emotività personali - talvolta troppo personali - per cui si finisce per pensare che quanto entra nel nostro modo di vedere sia volontà di Dio e provvidenza quando in realtà c'è solo molto di nostro.

Allora, del ministero si coglie quanto, di volta in volta, si ritiene consono o si pensa appaghi, in termini di gratificazione personale, ripetendo, a noi e agli altri, che questa è proprio la volontà di Dio.

Carissimi Andrea, Fabrizio, Paolo: guardatevi da una tale deriva che può manifestarsi in ogni età della vita e partite col piede giusto; starete bene voi, farete stare bene gli altri.

Siamo alla vigilia dell'apertura dell'anno della fede, indetto da Benedetto XVI. La gratuità e il suo stile hanno un rapporto strettissimo con l'evangelizzazione; desidero sottolineare questo punto alla vigilia dell'apertura dell'anno della fede.

L'apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinti, rimarca il valore della gratuità, ricordando che annunciare il Vangelo - come cosa che gli è stata richiesta e non come sua spontanea iniziativa - lo pone nella situazione di non poter esigere nulla dal Vangelo stesso: "Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato" (1Cor. 9,17).

Il senso della gratuità, come criterio di vita e d'azione del presbitero, deve trasparire in ogni sua azione ecclesiale come logica che lo pone oltre le sole considerazioni umane.

La logica umana, nella modalità del dare e dell'avere - tutto ha un prezzo -, organizza rapporti e relazioni forse ispirate alla giustizia - che è virtù morale cardinale -, ma, seppur virtuosa, è ancora una logica umana, ancora insufficiente sul piano della grazia e, quindi, del ministero ordinato.

Le promesse che state per pronunciare, e che già conoscete dall'ordinazione diaconale - obbedienza e castità/celibato - appartengono alla logica del dono più grande.

Un dono che porta a compimento la persona poiché, contrariamente a quanto sostiene una cultura oggi maggioritaria, si cresce e si diventa più uomini, scoprendo il senso pieno della vita, anche attraverso scelte di libertà che non sono di tutti e che, da tutti, non sono condivise.

Gratuità ed eucaristia, gratuità e preghiera, gratuità e ministero: queste e molte altre sono le voci di cui dovremmo parlare; le lascio alla vostra considerazione. Qui mi fermo solo sul tema della gratuità e dell'evangelizzazione.

In altri termini, la gratuità come condizione necessaria perché la via della salvezza possa essere percorsa dagli uomini. L'apostolo Paolo considera l'evento cristiano dopo Pentecoste, vale a dire la Chiesa; essa, attraverso il dono dello Spirito Santo, è in grado di offrire la salvezza a tutti. La salvezza - oramai - è pronta, è disponibile, è fruibile senza eccezioni e preclusioni.

Ma, poi, Paolo fa la dolorosa constatazione: se non vi sono annunciatori, la salvezza non potrà esser accolta. "Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza alcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!" (Rom 10,14-16).

Paolo è consapevole della necessità dell'annuncio, tanto che afferma come i presbiteri chiamati a esercitare la presidenza - compiendo bene tale ufficio - devono ricevere un onore più grande dalla comunità. Poi aggiunge che doppio onore va tributato, soprattutto, nei confronti di quanti si affaticano nella predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1Tm 5,17).

Alla vigilia dell'apertura dell'anno della fede, il testo paolino risulta illuminante. Paolo chiede di riflettere: non di rado, infatti, ci fermiamo sulla idoneità o inidoneità del linguaggio, sulla metodologia, sul rapporto tra prassi e fede e, ancora, sulle tecniche d'inculturazione della fede; in genere ci appassioniamo più a queste tematiche che ai contenuti della fede che, non poche volte, abbiamo lasciati in ombra.

In realtà, più che affannarci nel discutere tali questioni, dovremmo incominciare a pensare, con maggiore attenzione, al fatto che continuando a dibattere su di esse, si perde di vista che non avremo più gli annunciatori, soprattutto quelli costituiti nel ministero ordinato.

Così, una questione prioritaria è costituita dagli annunciatori che, nella Chiesa, hanno il compito di presiedere l'Eucaristia. In altre parole: le vocazioni al sacerdozio e la pastorale vocazionale.

Paolo, qui, esorta a ricuperare il senso e la verità delle cose, per cui prima preoccupazione è d'investire sulle persone prima che sulle tecniche e le strutture.

Dobbiamo pensare che, appunto, se mancano gli annunciatori viene meno la possibilità stessa dell'annuncio di fede e quindi, alla fine, dello stesso credere.

A tale proposito, la predicazione - affidata in genere ai presbiteri - rappresenta una vera risorsa per la Chiesa.

Carissimi don Andrea, Fabrizio e Paolo: esaminatevi al termine di ogni giornata, chiedetevi se e come in quel giorno avete annunciato la Parola di Dio, l'amore che ha accompagnato il vostro annuncio, la vostra catechesi, la vostra omelia; soprattutto se il vostro annuncio sia stato preceduto e sostenuto dalla preghiera.

Le vostre omelie, alla fine, dipenderanno più dalla vostra preghiera e dal vostro amore che dalla vostra tecnica comunicativa.

Rispettare e amare la Parola di Dio vuol dire che la predicazione non può ridursi alla comunicazione di un pensiero soggettivo, esternato in occasione dell'evento cristiano. Ancora, la Parola di Dio non può ridursi a pura manifestazione d'esperienza personale; allora risulta chiarificatore quanto afferma il Sinodo dei Vescovi del 1971: "Le esperienze della vita sia degli uomini sia dei presbiteri, le quali devono essere tenute presenti e sempre interpretate alla luce del Vangelo, non possono essere né l'unica né la principale norma della predicazione" (Il Sacerdozio ministeriale, II, I, 1: Il sacerdozio ministeriale nel magistero ecclesiastico. Documenti (1908-1993), n. 592).

Carissimi ordinandi, conservate in voi, con fermezza, l'idea che quella che annunziate è la Parola di Dio, Parola che avete ricevuto dalla Chiesa. Parola, Dabar, significa comunicazione di verità e insieme evento salvifico; il presbitero sa che non si tratta di una sua parola, ma della Parola di Dio. Non può sottoporla a manipolazione alcuna, a trasformazioni e adattamenti di sorta.

Secondo la prassi della Chiesa, l'annuncio della Parola avviene in stretta connessione con i sacramenti che sono spazi, momenti e relazioni in cui Cristo – che è il vero ministro - comunica la salvezza secondo le esigenze di coloro che si protendono a Lui.

I sacramenti sono gesti di Cristo e della Chiesa, eventi di grazia in cui la parola - unita al segno -, incontrando un uomo aperto al dono di Dio, diventa evento certo di salvezza.

Carissimi Andrea, Fabrizio e Paolo siate i custodi fedeli della Parola di Dio e ministri attenti e disponibili a porre, con fede e amore, gli atti sacramentali. In tal modo, sarete a servizio degli uomini, i quali - seppure non sembra - hanno nostalgia di Dio, anche quando non lo dicono.

Non siate sterili cultori del passato e neppure impazienti scrutatori di un futuro che forse, nella modalità che taluni s'immaginano, non ci sarà.

Carissimi Andrea, Fabrizio e Paolo - insieme a voi mi rivolgo a quelli che, fra poco, saranno i vostri confratelli presbiteri - tutti ricordiamo che, come sacerdoti, raggiungiamo l'apice della nostra vocazione e del nostro ministero nel pronunciare le parole di Gesù: "questo è il mio corpo" e, ancora, "questo è il mio sangue".

In tale parole, infatti, c'è la pienezza del ministero sacerdotale: ogni volta che noi pronunciamo queste parole - lo dico non con vanagloria - possiamo essere malati o anziani o così poveri da non aver il necessario per sfamarci in quel giorno ma, comunque, siamo "gli uomini più potenti del mondo".

Carissimi confratelli, stimiamo di più il nostro sacerdozio e avremo più rispetto per noi stessi, non a partire dalle realtà secondarie ma costitutive del nostro sacerdozio.

L'anno della fede, indetto per ricordare i cinquant'anni dall'apertura dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, ci aiuti - lo dico soprattutto a voi carissimi ordinandi, poi a tutti i confratelli - a cogliere il nostro sacerdozio come un rinnovato dono fatto alle comunità cui siamo mandati per annunziare e celebrare la fede nel Signore Risorto inizio e pienezza della nostra fede.

Giovanni Battista Vianney, il Santo curato d'Ars, diceva: "Un buon pastore, secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia, e un dono dei più preziosi della misericordia divina..." (B. Nodet, Il pensiero e l'anima del Curato d'Ars, Gribaudi, pag. 132).

Carissimi don Andrea, don Fabrizio e don Paolo: guardate al vostro futuro Vescovo come al Padre comune. Pregate perché sia guida saggia, forte, libera, capace d'indicarvi e anche precedervi - non sulla strada delle cose facili - ma là ove Dio vi attende ad esercitare il vostro ministero sacerdotale di cui, proprio il Vescovo, è il garante ultimo.

Alla Vergine - la Madre del Signore - così venerata nei numerosissimi santuari diocesani - e qui indico solo Soviore, Le Grazie, Roverano e il Mirteto - domando che vi sostenga sempre col Suo materno amore lungo il cammino del vostro sacerdozio che oggi ha il suo inizio.

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