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“Il futuro di Spezia? Dobbiamo prepararci all’innalzamento del mare che cambierà la città” In evidenza

di Umberto Costamagna - Il futuro adesso n. 4. Gino Ragnetti, storico e giornalista: “Basta subire scelte di altri”

 

Questa volta a intervenire nel dibattito è un amico, un maestro di giornalismo, in particolare per me, uno spezzino (anzi, un marolino) nato però sull’Appennino (a Pennabilli, per la precisione) ma trasportato in riva al golfo ancora in fasce. Gino Ragnetti, è persona molto nota in città: giornalista da una vita, poi storico di cose spezzine (non so quanti libri ha scritto e quanti ancora ne ha in cantiere), animatore di gruppi Facebook ovviamente dedicati alla storia della città e, non ultimo, impegnato nel sociale in progetti importanti e davvero utili per la nostra comunità.

Grazie al suo doppio aspetto di attento cronista dell’oggi ma anche conoscitore della storia profonda della città, Gino Ragnetti ha una sua precisa visione del futuro del territorio.
In questa intervista anticipa anche uno studio scientifico che prevede l’innalzamento dei mari e dunque una Spezia “formato Venezia” già tra una trentina d’anni: un fatto, questo, su cui saremo chiamati a intervenire e su cui invita a pensare già da ora.

È una carrellata lunga, ma piacevole perché fatta in compagnia di una persona appassionata di spezzinità. E come sempre nei suoi interventi è ricca di curiosità, notizie e ricordi di una persona che ha vissuto da vicino e studiato da storico l’evoluzione della nostra città.

GdS. Il prossimo 28 agosto saranno passati 151 anni da quando il generale e architetto Domenico Chiodo inaugurò l’Arsenale Militare della nostra città. Da quel giorno cambiò radicalmente la natura e il destino di Spezia e degli spezzini. Quella che sembrava destinata a diventare una “splendida perla sul mar”, una città turistica e a vocazione terziaria, si trasformò prima in una città militare, basata sul parastato e successivamente in una città industriale legata alla difesa.
Poi, negli anni Sessanta del secolo scorso, in maniera quasi casuale, si ricominciò piano piano a riconsiderare la natura turistica della nostra terra. Il risultato oggi? Una città “mes-ciua” dove si mischiano panorami mozzafiato e oasi di una bellezza straordinaria agli insediamenti industriali e portuali, dove le attività cantieristiche di eccellenza hanno fatto fatica a conquistarsi un giusto spazio. Insomma, che razza di città è oggi Spezia e la sua provincia?
R. È una comunità che, come capita da 170 anni a questa parte, continua a subire scelte calate dall’alto. Spezia è sempre stata una città fortemente statalizzata, quindi eterodiretta. Contrariamente a quanto accade a livello centrale, dove di solito (ma non sempre) è la politica a governare l’economia, qui, a causa della presenza predominante dello Stato, avviene il contrario: è l’economia, imposta dall’alto, a dettare i tempi della politica. Così, dopo avere subito l’occupazione militare con l’arsenale, le polveriere, i depositi, le caserme e le batterie, e con un apparato industriale usato pressoché esclusivamente a fini bellici, finita la seconda guerra mondiale Spezia si è trovata con un enorme e costoso apparato burocratico – i famosi burosauri – nutrito dalla pachidermica macchina statale, e con un arsenale gravato da migliaia di lavoratori in esubero “smaltiti” di anno in anno con il blocco delle assunzioni e quindi con il progressivo innalzamento dell’età media dei dipendenti (già nel 1899 l’arsenale dovette licenziare in blocco la bellezza di seimila operai perché «costano tanto, lavorano assai poco, e producono ancora meno», scrivevano i giornali).

Tornata la pace, come una marmotta nella tana Spezia ha vissuto per decenni sotto l’ala protettrice delle leggendarie partecipazioni statali (Oto Melara, Muggiano, Termomeccanica e San Giorgio), di un polo energetico pubblico sempre più invasivo (raffineria Ip, centrale Enel, terminal Snam), del mitico 27 (tradizionale giorno di paga dell’esercito degli statali e dei parastatali), degli stipendi erogati dai sempre più generosi e pletorici enti locali, e delle pensioni. Ovvio che in quella situazione non avesse modo di nascere e crescere, per di più in carenza di adeguati capitali, quello spirito della frontiera che altrove ha caratterizzato quelle “avventure”, per intenderci, che crearono il boom economico degli anni Cinquanta-Sessanta. Quanti sanno che le primissime pentole a pressione della Lagostina furono fabbricate con l’acciaio delle navi da guerra smantellate come pegno di guerra in arsenale? Ne conseguiva che l’imprenditoria privata generata dal “pubblico”, il famoso “indotto”, vivacchiava, spesso in posizione di sudditanza, seguendo il vento: prima si smantellarono gli stabilimenti balneari per fare posto ai cantieri di demolizioni navali, e poi questi furono soppiantati da un porto rivelatosi alla lunga alquanto invadente. Ciò per dire come le grandi scelte in tema di economia siano sempre state fatte altrove. Per questo, quando il sistema del finanziamento pubblico è crollato (crisi dell’Efim, e a ruota dell’industria armiera), la Spezia si è scoperta con l’acqua alla gola: d’improvviso privata del salvagente, ha scoperto che non sapeva nuotare.

Che fare, allora? Negli anni Novanta, un decennio terribile, uno dei più brutti della sua storia recente, sedotta e ripudiata dai militari, con l’arsenale in abbandono e con la produzione armiera ai minimi termini, con l’alienazione da parte dello Stato di San Giorgio e Termomeccanica, con la chiusura della raffineria, della Galileo e dello jutificio, Spezia si è vista obbligata a tentare le poche strade rimaste: il turismo, e – grazie alla straordinaria donazione dell’ingegner Amedeo Lia – la cultura. Un percorso a ostacoli, sia perché c’era da inventare tutto, a cominciare dalla mentalità degli abitanti, un po’ alla Gigion abossa, sia perché nella delicatissima fase di gestazione del nuovo sistema economico, è piombata tra capo e collo con l’effetto di una grandinata di primavera sui frutteti la violentissima crisi finanziaria dei subprime annunciata dal fallimento della Lehman Brothers, una crisi che per un decennio ha devastato il sistema produttivo mondiale con spaventose perdite di posti di lavoro. È evidente che Spezia, solamente da pochi anni costretta a cavarsela da sé, priva degli anticorpi giusti per affrontare una crisi del genere, non poteva uscirne senza serie ammaccature nel comparto industriale, e di riflesso in quello artigianale e commerciale, già seriamente ferito, quest’ultimo, dall’online e dalla grande distribuzione frattanto sbarcata in modo massiccio in provincia. Insomma, si era costretti – e a maggior ragione lo sarà adesso a causa della tremenda mazzata del Covid – ad andare avanti a tentoni, senza che ci sia stato modo di chiarirsi le idee e di pianificare qualcosa per il futuro. Per fortuna ci sorreggono ancora la navalmeccanica, soprattutto nel diporto di lusso, e la ripresa dell’industria della difesa, con i programmi di rinnovo della flotta.

Ma a essere onesti, bisognerebbe poi anche chiedersi per quale motivo alla Spezia per realizzare un’opera utile e importante debbano sempre trascorrere almeno quarant’anni. Il raddoppio della Pontremolese era il cavallo di battaglia del mitico prof. Luigi Massa negli anni Settanta sulle colonne del Telegrafo prima e della Nazione poi; del progetto di disinquinamento del golfo parlò il sindaco Aldo Giacché nel 1975; un progetto Diga-beach fu proposto già nei primi anni Ottanta da Antonello Pischedda; la necessità di un sicuro collegamento città-mare fu esaltata dal famoso “ponte dei socialisti”, mi pare metà anni Ottanta; del progetto del porto Mirabello (inaugurato nel 2010) scrissi io per la prima volta sulla Nazione nel 1971, era sindaco il mio amico Bruno Ferdeghini; e per carità di patria non parliamo poi della Variante Aurelia, del nuovo Ospedale o delle aree militari!

In parole povere, se è vero che da almeno trent’anni noi spezzini navighiamo con il vento contrario, è altresì vero che non ci siamo mai risparmiati nel metterci del nostro!
Mi accorgo però di essere andato fuori tema. Ho parlato, anche troppo, più del passato che del futuro. Com’era la domanda?

GdS. La domanda era cosa pensi della situazione attuale di Spezia. In che città viviamo?
R. Be’, se fatta a dicembre, a questa domanda sarebbe stato abbastanza facile rispondere abbastanza facilmente, ma oggi, con il Covid che ancora angoscia le nostre giornate, è assai difficile dire. E sarebbe anche ingeneroso pretendere una risposta da chi governa comune e provincia. Occorre vedere come ne usciamo! Se invece togliamo il virus dai nostri pensieri, credo allora che si debba parlare di una città confusa, ancora in mezzo al guado, che spera di trovare nel turismo la risposta ai suoi problemi economici, ma che al tempo stesso non fa granché per meritarsi un posto di rilievo nelle guide turistiche di tutto il mondo, con il rischio che alla fine si arrivi a pensare che la Spezia sia in provincia delle Cinque Terre. E con il rischio, ancora più grave, di ricadere nel peccato originale della monocultura economica, com’è successo dal dopoguerra – pagandone a carissimo prezzo il declino – con la dipendenza prima dall’arsenale e poi dall’industria armiera fiorentissima negli anni ’70 e ’80 (l’Oto Melara aveva 2.300 dipendenti, oggi ne ha 900. Poi ci chiediamo da dove venga questa congiuntura negativa!).

GdS. Proviamo a immaginare il futuro adesso. Quello che vedranno i nostri figli e i nostri nipoti. Quale città gli stiamo preparando? O meglio, quale città tu pensi che valga la pena di preparare loro?
R. Quale città gli stiamo preparando, dici? Perché, pensi che fra una cinquantina d’anni ci sarà ancora una città?

GdS. Come sarebbe a dire?
R. Sarebbe a dire che se non hanno toppato di brutto gli scienziati che in tutto il mondo studiano i cambiamenti climatici, a cominciare da quelli dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, da qui a fine secolo il livello del mare sarà più alto, come minimo, di un metro (e c’è chi dice due), il che significa che Spezia finirà sott’acqua. Ma non accadrà tutto di colpo nel 2100, bensì gli effetti si dovrebbero cominciare a vedere già fra una trentina d’anni, e magari anche prima. Qualche anno fa, dopo un paio di giorni di intensa pioggia ho scattato una foto alla Morin all’angolo con la Revel con l’acqua che aveva superato la banchina. Ancora un palmo, e arrivava in Piazza Brin. D’altronde Spezia ha subito spesso nella sua storia importanti allagamenti. Non più tardi di alcuni mesi orsono, tanto per dire, con un telefonino qualcuno ha firmato delle anguille che vascheggiavano in Corso Cavour. E forse avrai fatto caso che alcuni commercianti hanno già installato delle paratie sulle porte dei loro negozi.

GdS. E allora?
R. E allora, siccome l’argomento è alquanto impegnativo, non si può liquidare in quattro righe, se ti interessa, potremmo parlarne in altra occasione.

GdS. Ok, facciamo come dici, accantoniamo per il momento i cambiamenti climatici: ne riparleremo presto. Perciò, proseguendo nel giochetto di “A domanda risponde” come in un verbale del commissariato, possiamo continuare con un: Partendo dal presupposto che tutto questo (città sommersa dall’acqua) non avvenga, cerca di trasformare questo “sogno” ideale in un progetto concreto su cui lavorare fin da subito. Cosa c’è o cosa ci sarebbe da fare per “scaricare a terra” questa idea?
R. Diciamo che non vorrei essere nei panni di Peracchini, perché come ti volti vedi dei problemi grossi come case. Basta pensare all’ospedale, alla landa deserta dell’area ex Ip, al progetto Waterfront, alle aree che forse l’Enel libererà, alla bulimia del porto con conseguente peggioramento della qualità della vita degli abitanti dei caseggiati prospicienti lo scalo, alla Varante Aurelia, al degrado di interi quartieri. Ma davvero non ci accorgiamo che Via Chiodo – quello che nemmeno tanto tempo fa era il salotto buono della città, quello delle vasche e della dolce vita sprugolina – è ormai diventata una orrenda strada di periferia? D’altronde, se ci fai caso vedrai che la zona del passeggio e dello shopping, è ormai tornato ad avere più meno le dimensioni del borgo pre-arsenalizio, perimetrata da Via Prione, Via Rosselli, Corso Cavour e via Fazio. Tra l’altro, l’abbandono di quella che era la strada più elegante di Spezia, con la chiusura di negozi un tempo prestigiosi, non ha fatto che allargare la faglia fra l’abitato e i giardini, e quindi con il mare, con tutti i problemi anche di sicurezza pubblica e di decoro che ciò comporta.

Non parlo invece delle aree militari perché sarebbe come pestare l’acqua in un mortaio. Che fare, allora? Di là dalla soluzione, imprescindibile, dei problemi citati, non si può ignorare il fatto che fra un anno ci sarà la tecnologia G5 dalla quale ci si aspettano prospettive oggi non immaginabili, così come vent’anni fa era impensabile l’esistenza dello smartphone. Cosa si potrà fare? E come sarà la città con le auto a guida autonoma e connesse? Quali opportunità potranno venire dai droni? E quali riflessi potrebbe avere sul traffico terrestre l’arrivo nel golfo di piccoli natanti a comando vocale e senza equipaggio, disponibili con il sistema del tipo car sharing (nel caso, boat sharing) capaci di portare in tutta sicurezza in ogni angolo del golfo a prezzi modici? E il remote working? E le web conference? Questioni grosse, grosse per davvero! Troppo grosse, a mio avviso, per pensare di risolverle con l’attuale configurazione del governo delle città. Bada, non dal punto di vista politico, bensì di sistema

GdS. La politica, si dice, è l’arte del possibile. Ma, come insegnava don Lorenzo Milani, è anche il modo per “sortire insieme dai problemi comuni”. E allora che fare per cercare, qui e ora, di costruire e raggiungere quel futuro che hai immaginato per Spezia, quel futuro-bene-comune per i cittadini che verranno?
R. Mah, considerato che oltretutto di questi tempi non pare che ci siano serie possibilità di incoraggiare importanti investimenti dall’interno o dall’estero (persino i cinesi stanno tirando la cinghia), io penso che il sindaco dovrebbe cogliere questa ’occasione di stallo, diciamo così, per preparare la strada a un new deal. Potrebbe cioè organizzare una sorta di sinodo con tutte le forze economiche, politiche e sociali non solo della città, ma di tutta la provincia, suddivisa per aree tematiche, in grado di dare una mano per costruire una Nuova Spezia. Per dirne una, non sta in cielo né in terra che una città di mare, non abbia il mare, né che non ci siano spazi per il divertimento dei giovani o per l’associazionismo. Quindi, raccogliere idee, raccogliere risorse, e immaginare un futuro con lo sguardo volto... al futuro, magari pensandola alla Steve Jobs: “Stay hungry, stay foolish”.

Qui i link ai precedenti interventi de “Il Futuro Adesso”:
N. 1. Intervista a Filippo Lubrano
N. 2. Intervista a Lara Ghiglione 
N. 3. Intervista a Enzo Papi 

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