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Il suicidio di Toffik propone molti interrogativi. Pochi i programmi di accoglienza integrata per i rifugiati

Il 31 dicembre, fra meno di due mesi, terminerà l'emergenza Nord Africa in Italia, caratterizzata dalla gestione affidata alla Protezione civile. Dichiarato il 12 febbraio 2011, essa doveva servire per far fronte all'arrivo di quanti fuggivano dalla Libia.

Più che di libici, però, si è trattato soprattutto di rifugiati da altri paesi (nigeriani, tunisini, somali, eritrei). Spalmati nelle varie regioni, essi sono stati accolti in strutture degli enti locali, per lo più, come alla Spezia, coadiuvati da onlus e da associazioni, in primo luogo la Caritas. Programmi di «accoglienza integrata» - non solo vitto e alloggio, dunque, ma anche attività di assistenza e di orientamento - ce ne sono stati ben pochi, e la condizione dei migranti, specie in quest'ultima fase carica di incertezze, è molto precaria. Lo si è visto alla Spezia con il tragico caso di Usman Toffik, giovane africano che, dimesso dopo un primo ricovero, si è tolto la vita. In molti, tra cui don Franco Martini e i suoi collaboratori, gli hanno dato l'ultimo saluto prima del trasporto al cimitero islamico di Genova. Ora i problemi restano e si attendono decisioni del governo. Queste persone non possono essere comunque abbandonate a se stesse.

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