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L’editoriale della domenica di Luca Erba.

Non è mai semplice affrontare con piena disinvoltura alcuni argomenti, specie se questi toccano ancora la carne viva della nostra storia recente. Potrebbe dirsi anche un fatto personale dato che in Italia, per parafrasare un celebre aforisma: “ci conosciamo tutti.”
Non è mai semplice fare i conti con la storia recente provando a mantenere quel giusto distacco in grado di farci fare valutazioni compiute e puntuali evitando facili semplificazioni o pallidi voli pindarici. C’è ancora una parte di quella storia così lontana ma così vicina che sembra bussare alla nostra porta in un eterno ritorno. Si ripropone, ci dice che esiste, ci ricorda che è stata viva e volente o nolente un passaggio importante per quello che stiamo vivendo anche oggi.

Sono passati ventiquattro anni dalla morte di Bettino Craxi e i conti con quella storia sono ancora aperti. Così aperti che continuano a confrontarsi tesi diverse su cos’abbia significato la fine della cosiddetta prima repubblica e come si sono caratterizzati e qualificati proprio gli ultimi dieci anni di questa (i due Governi Craxi saranno in carica dal 1983 al 1987).

Tra i tanti enunciati su questa stagione quello che ho trovato più suggestivo è quello che recentemente vede per bocca e per penna dell’Onorevole Cicchitto (ma non solo) un Craxi “braccato” nella caccia al cinghiale a causa del suo rifiuto ad accettare “la guida delle tendenze presidenzialiste, neogaulliste e antipartitiche.” Un suggerimento che provenne, secondo l’audace tesi, proprio da quell'Enrico Cuccia che per tutta la durata della prima repubblica, in silenzio, aveva assistito a tutte le torsioni e contraddizioni del paese.

Ci sono più ragioni che mi spingono a dubitare che, anche se le cose fossero andate nella direzione auspicata dai sostenitori di questa tesi, ci sarebbe stato un riscontro fattuale nella storia politica dell’inizio degli anni novanta. Non ne faccio una critica alle capacità dell’uomo politico in quanto tale (Craxi era tutto fuorché un parvenu), pongo altresì l’accento sul contesto storico che l’Italia e l’Europa intera stavano vivendo in quel momento. A terra c’erano ancora i calcinacci del muro e un sentimento trasversale di insofferenza verso quella nomenclatura che aveva assunto i connotati (per gran parte dell’opinione pubblica e ceti intellettuali) di vecchia classe dirigente ispiratrice di quella partitocrazia che puzzava di antico regime. Non ci fu la forza (nessuno escluso) di ragionare su una proposta innovativa che intercettasse la domanda di cambiamento cercando di contenere al proprio interno un sistema valoriale in grado di combattere le tossine che l’antipolitica aveva sprigionato nell’aria. Non fu soltanto uno scontro tra poteri dello Stato, in quel contesto si stava decidendo con quale sistema valoriale scrivere le nuove pagine a seguire. I decenni precedenti erano stati caratterizzati da modelli diversi e in continuo cambiamento. Il boom economico, gli anni dell’impegno politico, del conflitto sociale e quelli della cultura yuppies. Tutti fattori di “movimento” che non potevano essere intercettati dagli interpreti di quella storia che stava finendo. Storia recente, recentissima nei primi anni novanta, ma percepita come lontana nei secoli. Quella tendenza presidenzialista o neogaullista però ci fu eccome, solamente che non era più in grado di essere interpretata da chi, proprio in quel momento, stava interpretando il ruolo del cinghiale durante la caccia.

L’errore della sinistra fu di pensare che sotto i calcinacci del muro ci sarebbero finiti soltanto quei partiti o quei dirigenti politici che avevano ricoperto incarichi di rilievo nei governi precedenti. Quel silenzio rispetto a ciò che stava accadendo nel paese (e in alcune Procure) tracciò un solco ancora più profondo con un pezzo di storia socialista (e non solo) che finì in braccio a Forza Italia e a quel nuovismo che incoronò Berlusconi come erede della tradizione liberale, libertaria e moderata del paese. Il pezzo maggioritario del blocco conservatore della politica italiana non solo escluse un apparentamento con gli eredi della storia post comunista ma fu anche messo in guardia rispetto alla “mattanza” che stava andando in scena. Anche se le elezioni del 1994 costruivano uno schema politico bipolare, sotto le ceneri di quella “caccia al cinghiale” covavano le spinte delle schegge antipartitiche (la crisi del bipolarismo) con le quali ancora adesso siamo costretti a fare i conti.

Non è un caso che dall’altra parte della barricata fu proprio Berlusconi a costruire (da federatore) il blocco unito del centro destra, un modello che ancora oggi tiene e si dimostra netta maggioranza nel paese. Un mondo che, a differenza delle altre tradizioni politiche, aveva sin da subito fatto i conti con quella storia e aveva deciso senza ambiguità da che parte stare.

Stava nascendo un presidenzialismo nei fatti che, anche se affrontato in maniera diversa, non avrebbe comunque garantito a Craxi di rimanere in piedi. Arrivò all’improvviso il concentrato di una storia diversa che si esprimeva con il supporto di un tubo catodico di una televisione con sempre più canali e messaggi pubblicitari pensati per parlare direttamente al pubblico sintonizzato. Cresceva la disintermediazione, nasceva la seconda repubblica.



 

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